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La storia del Porto di Genova

Dal Molo vecchio al Porto Antico, la storia di Genova è la storia del suo porto. Documentario storico in collaborazione con la Fondazione Ansaldo
Veduta di genova da via Domenico Chiodo

“Genua urbs maritima”, cioè “Genova città di mare” recita il titolo di una xilografia quattrocentesca che ritrae la città con il porto in primo piano. Genova nasce, si sviluppa e si conquista un posto di rilievo nelle vicende storiche ed economiche europee in quanto città di mare, profondamente legata al suo porto fin dagli albori della propria storia. Protetta da due lingue di terra a est e a ovest – il Molo vecchio e il Promontorio – e cinta a nord dalle catene montuose che la riparano dai venti e da facili incursioni nemiche, la posizione è anche molto favorevole in quanto imprescindibile snodo commerciale: è la porta tra il Mediterraneo e il Nord, lo sbocco naturale verso l’Oltregiogo e la pianura padana e si trova sulla rotta che porta a Marsiglia, grande scalo mediterraneo.

L’aspetto originario del porto è quello coincidente col naturale bacino (oggi cuore del Porto Antico) e le prime notizie certe riguardanti gli interventi di costruzione risalgono al primo Medioevo, all’epoca del Comune, contestualmente all’istituzione delle figure dei Consoli del Mare, figure incaricate di sovrintendere al corretto svolgimento di tutte le attività portuali ivi comprese le opere di manutenzione e ampliamento delle infrastrutture.

Il secolo XII vede l’espansione del tracciato commerciale genovese nel mediterraneo e la città diviene punto di smistamento del traffico di merci di lusso che arrivano dall’Oriente e dalle Fiandre, traffico che genera attività finanziarie e bancarie che nel volgere del tempo vedranno i banchieri genovesi protagonisti in Europa.

A partire da metà duecento cominciano i lavori di riempimento che conducono alla realizzazione del Molo Vecchio sulla base della naturale propaggine di scogliera, e all’erezione su di esso della Torre dei Greci, a segnalare l’ingresso del porto. Il bottino di guerra derivante dalla sconfitta dell’acerrima nemica Pisa permette poi, sul finire del secolo, la realizzazione della darsena, con l’Arsenale per le costruzioni navali e il rimessaggio, e due bacini: uno destinato alla flotta di galee e l’altro al traffico del vino. Intanto, nel 1260, davanti a Sottoripa, viene completato il Palazzo del Mare, sede del Comune. Quello che oggi conosciamo come palazzo San Giorgio sede dell’Autorità Portuale e che nel ‘400 ospitò l’antesignano di tutti i moderni sistemi bancari, il Banco di S.Giorgio.

La Lanterna di Genova

Ai primi del ‘300 risale la costruzione della Lanterna come la conosciamo noi oggi (vai all’approfondimento storico), anche se sappiamo dalle fonti che fin dal 1128 esiste una torre atta all’avvistamento di navi all’orizzonte e già dal 1161 le navi dirette in porto sono tenute a pagare un dazio per il servizio di segnalazione luminosa del faro.

La zona interna al molo vecchio è destinata all’attracco delle imbarcazioni minori e dal loro affollamento simile a quello di una mandria deriva il nome del luogo, detto Mandraccio.

La struttura portuale rimane sostanzialmente invariata nei suoi aspetti fondamentali fino a Cinquecento inoltrato: gli interventi maggiori riguardano il Molo (corredato di un faro minore), che viene a più riprese ingrandito fino al 1553, quando a coronamento dei suoi 490 metri di lunghezza viene posta la Porta del Molo (o Porta Siberia) progettata da Galeazzo Alessi. I sei ponti perpendicolari alla Ripa Maris, cioè alla riva, prendono il nome dal tipo di merce che vi si scarica oppure dalle famiglie che hanno residenza nelle vicinanze: in origine interamente in legno, vengono ricostruiti in pietra a partire dal ‘400, contemporaneamente al progressivo potenziamento della darsena e all’escavazione del fondale per permettere l’attracco delle imbarcazioni man mano sempre più grandi.

A conferma dell’importanza del porto per la città, i Padri del Comune, già dal 1363, venivano nominati anche Salvatores Portus et Moduli, cioè Conservatori del Porto e del Molo, con responsabilità dirette nell’amministrazione portuale, dotati di poteri speciali e individuati in base a precise competenze tecniche.

Altra figura storica, diversa naturalmente ma non per questo meno importante, è quella del camallo, ossia lo scaricatore portuale, legata imprescindibilmente alla storia del porto di Genova fin dai suoi albori. L’organizzazione dei camalli in squadre affonda le radici in tempi remoti: l’atto di nascita della Compagnia dei Caravana, prima associazione di lavoratori portuali, risale al 1340, e si distingue fin da subito per le esclusive che riesce ad ottenere dal Comune riguardo lo scarico delle merci, nonché per le sue caratteristiche di mutuo soccorso, codificate nello statuto, che prevedono il versamento di una quota del salario dell’associato nelle casse sociali, destinate all’assistenza dei malati e alle esequie di ciascun compagno.

Man mano che le dimensioni del porto aumentano attraverso la costruzione di nuove darsene e calate, il Molo Vecchio diventa insufficiente: è nel corso del Seicento che il bacino giunge al suo completamento tramite la costruzione del Molo Nuovo, posizionato davanti a Capo di Faro (dove sorge la Lanterna). Eppure siamo nel secolo cosiddetto “della prudenza”, quando le famiglie più ricche operano a livello finanziario in ambito europeo abbandonando di fatto l’iniziativa imprenditoriale e lasciando che il porto – e di conseguenza la città – entrino in crisi, un lento inarrestabile declino fino alla caduta nelle mani dell’esercito napoleonico nel 1797.

Con la Restaurazione, Genova venire annessa al Regno Sabaudo, nemico storico della Repubblica. La città è schiacciata dalle tasse e dal sistema burocratico piemontese, adatto a una regione prevalentemente agricola ma assolutamente inadeguato a una realtà mercantile come quella genovese. Ciononostante negli anni preunitari il porto riceve materie prime indispensabili a diversi settori dell’industria come settore del cotone, della lana, della concia delle pelli; scarica ferro, ghisa e carbone per l’industria siderurgica, che affermatasi in Piemonte e Liguria sarà motore dello sviluppo italiano postunitario. Il problema sono le infrastrutture, che si presentano ancora insufficienti a reggere il rinnovato traffico portuale: banchine vecchie, fondali poco profondi, moli troppo piccoli costringono i velieri a fermarsi al centro del bacino, mentre miriadi di piccole chiatte li raggiungono e le operazioni di scarico avvengono in più fasi con notevole spreco di tempo e costi maggiori.

Cominciano allora a prendere forma alcuni interventi essenziali come il prolungamento dei moli per tappe successive (tra gli anni venti e gli anni sessanta dell’Ottocento), realizzazione del primo bacino di carenaggio in Darsena, apertura di via Gramsci (già Carlo Alberto) e di altre direttrici di comunicazione, compreso l’allacciamento ferroviario, che giunge a compimento con il collegamento di Genova con Torino (1854), con la Lombardia (1861),  e successivamente con Ventimiglia (1872) e La Spezia (1874). I fondi stanziati dal Regno per il porto sono tuttavia ancora inadeguati e bastano appena per la manutenzione: si viaggia tra le 200.000 e le 400.000 lire annue nello stesso periodo (anni 30-60 dell’Ottocento) in cui Marsiglia, diretta rivale di Genova, investe 25 milioni. Ed è qui che si colloca l’intervento dell’ormai anziano marchese Raffaele De Ferrari, che nel 1874, di rientro proprio da Marsiglia, paragona la situazione dei due porti e, constatata l’inaccettabile inferiorità dello scalo genovese, decide di donare 20 milioni di lire in oro per i lavori di rinnovamento. Aggiunta di altri bacini di carenaggio, interventi sui moli, ampliamento delle calate, nuovi ponti, escavazione dei fondali, nuove gru idrauliche e ampi capannoni, binari ferroviari fin sulle calate, costruzione della stazione marittima ferroviaria di S.Limbania collegata a quelle di Caricamento e S.Benigno, della stazione marittima passeggeri su Ponte dei Mille, sistemazione del fondo stradale all’interno dell’area portuale sono tutte opere che comportano alla fine una spesa complessiva di 63 milioni di lire e conferiscono finalmente allo scalo una maggior efficienza e un aspetto moderno.

Alla fine dell’Ottocento, il porto genovese riceve il 90% del cotone grezzo importato in Italia, il 33% delle materie prime siderurgiche, il 35% del carbone, il 40% delle granaglie (importate in grande quantità a causa della crisi agraria che in quel periodo colpisce il paese), dati in continuo aumento: alla vigilia della Grande Guerra il porto movimenta circa 7,5 milioni di tonnellate di merci.

La crescita continua del traffico e della domanda di servizi fa sì che nel primo decennio del ‘900 si rendano nuovamente necessarie opere di adeguamento delle infrastrutture portuali: il Silos per il grano di calata S.Limbania, primo in Italia nel suo genere, viene realizzato grazie alle cifre stanziate da banchieri tedeschi, mentre i Magazzini Generali del Molo Vecchio (oggi Magazzini del Cotone) sono opera di una società inglese; privati italiani realizzano i Magazzini frigoriferi in Darsena e i Docks vinicoli di Ponte Morosini.

Un aspetto da tenere in considerazione è lo squilibrio tra quantità di merce importata ed esportata: l’80% delle merci in transito è di scarico, cosa che rende molto alti i costi portuali. La situazione è resa ancora più grave dal numero esorbitante di emigranti che in questi decenni partono diretti verso le Americhe: la metà di loro si imbarca proprio a Genova, e non esiste in porto una struttura adeguata per accoglierli. La stazione marittima passeggeri è decisamente troppo piccola, ciò significa che le folle attendono l’imbarco accalcate sulle banchine creando intralcio e situazioni di potenziale pericolo.

Nel 1903, dieci anni dopo la prima proposta in tal senso, si decide di concedere al porto l’autonomia amministrativa e gestionale, nella speranza di avvicinarsi ad una soluzione dei rinnovati problemi: si istituisce così il Cap, Consorzio Autonomo del Porto, con sede nello storico Palazzo S.Giorgio. Un’importante novità introdotta dal Cap riguarda l’organizzazione del lavoro dei camalli, che – dopo lo scioglimento delle corporazioni per ordine di legge – dagli anni settanta dell’Ottocento avviene a chiamata giornaliera. Con la nascita a Genova del Partito Socialista (1892) si formano in porto le prime organizzazioni operaie che riuniscono i lavoratori per categoria (carbone, cereali, merci varie) e rivendicano, attraverso azioni di sciopero, una serie di diritti che verranno riconosciuti e sanciti proprio dal Cap come ad esempio il censimento della manodopera e la possibilità di riunirsi in cooperative. Questi principi confluiscono nell’Ordinamento Generale del Lavoro, che rappresenta il primo regolamento di questo tipo in Italia.

DALLA GRANDE GUERRA AGLI ANNI TRENTA

Nel 1918, al termine della Grande Guerra, quasi la metà delle navi in arrivo in Italia passa dal Porto di Genova. Naturalmente i problemi legati all’insufficienza strutturale si sentono moltissimo e creando attese e ritardi determinano rincari notevoli delle merci. Il primo dopoguerra vede, col ritorno alla normalità del sistema commerciale, un ridimensionamento del porto, che si accentua con la crisi del ’29. Durante il ventennio fascista assistiamo ad una decisa variazione delle quantità di merci importate, resta invariata la percentuale di carbone, mentre compare e sale costantemente quella di idrocarburi e metalli per l’industria pesante; scende la quota di cereali a causa dello slancio impresso alla produzione interna (la “battaglia del grano” voluta dal Duce), così come quella di cotone, sostituito da tessili anch’essi prodotti a livello nazionale, sempre in virtù della linea autarchica.

Negli anni venti lo Stato si impegna finalmente a mettere a disposizione i fondi per apportare le indispensabili migliorie al sistema portuale: tra il ’23 e il ’29 vengono investiti 274 milioni di lire con cui si potenziano le strutture esistenti, si completa il tanto atteso bacino della Lanterna, si costruisce un terzo bacino di carenaggio e si collega il tutto alla ferrovia tramite la galleria aperta nel colle di S.Benigno e la nuova Via di Francia, aperta nel ’29;ai piedi della Lanterna, in relazione all’attigua presenza del bacino per il carbone, viene realizzata una centrale termoelettrica; nel 1935 viene aperta la “camionale”, ovvero la Genova-Serravalle, appositamente per il trasporto su gomma delle merci, che sta progressivamente diffondendosi; negli anni trenta arrivano anche altri 450 milioni che permettono di adeguare nuovamente le strutture di servizio all’accresciuta dimensione delle navi, viene costruito un quarto bacino di carenaggio entro il ’39 e realizzato il nuovo bacino di Sampierdarena con lo sbancamento definitivo del promontorio di S.Benigno. A levante vengono cancellate le spiagge della Foce e si costruisce il cosiddetto Porticciolo Duca degli Abruzzi destinato alla marina da diporto, che di fatto segna già il futuro della costa da quel lato, dove sorgerà negli anni sessanta il quartiere fieristico. Il porto assume dunque la fisionomia ancora oggi riconoscibile.

IL PORTO DI GENOVA DALLA SECONDA GUERRA AD OGGI

porto di Genova

Dal ’39 al ’40, rimanendo l’Italia fuori dal conflitto, il porto continua a lavorare alacremente e riceve anche le merci del Mare del Nord, dirottate qui per via del conflitto. Con l’entrata in guerra nel ’40 la situazione cambia completamente: Genova, città marittima e industriale e primo porto italiano, per l’intera durata del conflitto è bersaglio privilegiato dei bombardamenti alleati, dal cielo e dal mare (vai al documentario sul Novecento a Genova). Nell’arco dei cinque anni di guerra si contano 86 incursioni aeree sulla città, di cui ben 51 nel solo 1944. Dopo cinque anni di bombardamenti, il bilancio per danni subiti è assolutamente drammatico, la città è semidistrutta, e il porto danneggiato al punto da risultare inutilizzabile: tutte le costose opere di ammodernamento realizzate durante il ventennio sono andate perse, il bacino è disseminato di mine altamente pericolose, gli ingressi in porto sono ostruiti da imbarcazioni affondate appositamente dai tedeschi durante la ritirata, anche i moli e le dighe foranee sono gravemente danneggiati, mentre Palazzo S.Giorgio – sede del Cap – è stato colpito da uno spezzone incendiario che ne ha distrutto il tetto e i solai. Gli onerosi lavori di ricostruzione vengono però intrapresi con grande energia e, grazie agli ingenti fondi statali stanziati per la ricostruzione, alla fine del ’48 sono già terminati. Nel giro di una decina d’anni dalla fine della guerra i traffici tornano a essere quelli di un tempo e anzi aumentano, sempre però mantenendo lo squilibrio import-export che caratterizza lo scalo e che si attesta su un rapporto 80%-20%.

Nel dopoguerra le grandi trasformazioni in atto nei rami petrolifero e siderurgico mettono in difficoltà il porto, poiché cambia il modo stesso di concepire e organizzare il lavoro. La stazza delle navi aumenta moltissimo (cosa che richiede nuovamente adeguamenti di fondali e strutture), le imprese cominciano a dotarsi di flotte proprie e tendono alla gestione diretta della banchina perché non possono attendere i tempi del lavoro tradizionale. L’importanza che assume il commercio di idrocarburi è dimostrata dai numeri: nel giro di vent’anni, dal ’50 al ’70, passano dal rappresentare un quarto della merce sbarcata a rappresentarne più del 70 per cento. Nel frattempo il trasporto su gomma supera nettamente quello su rotaia, e nella seconda metà degli anni sessanta arriva la rivoluzione più grande: il container. Dal ’60 si comincia a costruire un terminal apposito per la ricezione di carbone nell’area industriale di Cornigliano, mentre nel ’63 si va ad aggiungere al sistema portuale il nuovo porto petroli di Multedo, realizzato per ovviare alla mancanza, fino a questo momento, di impianti specializzati per lo scarico del petrolio. Bisogna attendere il 1969 per vedere il primo terminal container (il primo del Mediterraneo) a Sampierdarena, e gli anni settanta per il secondo, mentre viene studiato un piano per realizzare a Voltri-Prà quello che oggi è il porto container.

Intanto, il Cap ha già ceduto il litorale di Cornigliano (400 mila metri quadri) alla Società Anonima Acciaierie Cornigliano (SIAC), mentre a Sestri cominciano i lavori per l’aeroporto, con il contributo economico di importanti industrie genovesi come Ansaldo, Piaggio, Ilva nonché del Ministero dell’Aeronautica.

Dalla seconda metà degli anni settanta fino a inizio anni novanta c’è una nuova flessione nella quantità di traffico, cosa che spinge l’ente consortile a decidere per una divisione e specializzazione delle varie aree portuali, ciascuna da dedicare a un’attività specifica. È attraverso questa profonda riorganizzazione che si va verso la nascita di quello che oggi è definito Porto Antico: tutta l’attività commerciale e industriale viene esclusa dalla zona del bacino vecchio, il quale presenta un valore storico e culturale inestimabile. Si decide per questo di recuperarlo e destinarlo interamente alla fruizione turistica e della cittadinanza; il piano di restyling viene realizzato da Renzo Piano e portato a termine nel 1992, in coincidenza con le celebrazioni colombiane per i cinquecento anni della scoperta dell’America: ogni edificio viene restaurato e destinato a nuovo uso.

Claudia Baghino 
[foto Lanterna, Daniele Orlandi]

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