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Sampierdarena: l’antico comune e l’industrializzazione

San Pier d'Arena, le antiche torri e le ville, San Benigno e San Bartolomeo, il Belvedere e l'industrializzazione

San Pê d’ænn-a ovvero San Pier d’Arena, che, dopo una riforma toponomastica (1936), divenne ufficialmente Sampierdarena, prende il nome dalla chiesa di San Pietro dell’Arena, oggi nominata Santa Maria della Cella. La denominazione del quartiere deve la sua origine ad una leggenda legata ad un improbabile soggiorno di San Pietro nella nostra città. Si narra che finita la predicazione giornaliera, il santo andò a riposare su quella spiaggia che aveva avuto l’occasione di ammirare al suo approdo a Genova. Svegliatosi da un profondo sonno, scorse alcuni uomini intenti a ritirare le reti. Fu naturale per lui unirsi ed aiutare quei ex colleghi (anche lui prima di essere Apostolo era stato un pescatore) e, in memoria di questo incontro, il luogo venne nominato, appunto, San Pier (Pietro) d’ Arena (sabbia).

Può stupire parlare di spiaggia pensando alla “barriera” di cemento che la separa, oggi, dal mare ma, intorno al 1000, questo era un borgo di agricoltori e marinai formatosi a partire dalla “Coscia” e dal “Canto”, due piccoli nuclei di case favorite da una insenatura rocciosa, prominenti sul mare, a fare da bacino. In particolare, il piccolo promontorio della Coscia, alla foce del rio Belvedere, era ideale per l’attracco e le operazioni di carico e scarico delle merci, una cosiddetta “cella maris” come venivano chiamati questi angoli riparati, etimologia da cui nasce un’altra ipotesi per il toponimo del luogo e del monastero.
Il costituendo borgo, a partire dal XII secolo, conobbe un periodo di grande ricchezza: la spiaggia in sabbia fine, caso raro nel litorale genovese, e la vicinanza con la Superba (dal 1128 la costa era dominata ad est dal “grande faro” di Genova) favorì, infatti, il piccolo comune che fino al Settecento venne considerato ambitissima residenza estiva per nobili e signori dell’alta società.

Fu dalla seconda metà dell’Ottocento che Sampierdarena si impose come uno dei maggiori centri industriali italiani, mentre il suo lido “moriva” definitivamente nel 1927 per fare spazio alle nuove banchine del porto.
Quando il mare era ancora il signore incontrastato di questi luoghi, il piccolo villaggio si stringeva attorno ad un semplice sacrario dedicato a Sant’Agostino (che la distruzione del chiostro di Santa Maria della Cella durante un bombardamento del 1880 ha riportato alla luce). L’antico nucleo, come detto raccolto intorno al primitivo complesso religioso, si accrebbe fino a diventare, il 2 febbraio 1131, Comune autonomo con l’elezione dei primi tre consoli, Oberto da Bosolo, Bongio della Sala e Pietro della Plada, anche se continuava ad essere assoggettato alla potente Genova.
L’incremento della popolazione aveva interessato zone sempre più estese di territorio delineando veri e propri quartieri come quello della Coscia, che andava dalla chiesa di Santa Maria della Cella fino ai piedi del colle di San Benigno, sovrapponibile alle odierne via Chiesa e via di Francia; l’area intorno alla chiesa di san Martino era, invece, chiamata il Campaccio (odierno Campasso, da nord-ovest di Certosa al confine con Rivarolo e da Belvedere al Polcevera), così come, sul litorale, poco distante, si estendeva il Canto detto anche “Sciummæa” per il “bulesumme” (agitarsi delle acque) che si creava alla foce del Polcevera, mentre il Mercato (o Ponte o Loggia) andava dal ponte di Cornigliano alla villa Centurione-Carpaneto di piazza Montano e s’inerpicava sino al Belvedere. A questi se ne aggiunsero altri come Palmetta, Castello, San Bartolomeo, Fiumara etc., ad eccezione di Promontorio che veniva considerato pertinenza di Genova poiché il suo territorio arrivava oltre Granarolo.

L’amministrazione della “res publica” era, come detto, affidata ai consoli a cui si affiancavano i “Massari” in qualità di consiglieri e un Cancelliere, deputato alla stesura delle delibere, le stesse che un Cintraco “sbandierava” per la città, il giorno dopo, preceduto da squilli di tromba. Per non sfatare, poi, il mito dell’attenzione che i liguri pongono su tutto ciò che è denaro, due Censori vigilavano sulle attività commerciali, verificando pesi e misure, ed avevano, altresì, l’incarico di controllare che gli osti versassero l’oneroso contributo, richiesto per ospitare stranieri in transito. La giustizia, infine, era comminata dal Podestà di Polcevera che provvedeva a fare rispettare sia i divieti, quali quello di schiamazzare in prossimità delle chiese, di giocare d’azzardo o di “taroccare” le merci, sia i doveri come quello di pulire le strade in vicinanza della propria dimora.

SAMPIERDARENA, LE ANTICHE TORRI DI GUARDIA

Ai tempi in cui “la rena” si estendeva da Capo di Faro fino alla Foce del Polcevera, era necessario difendere il borgo e la spiaggia dalle incursioni dei pirati barbareschi e, quindi, lungo la costa sorsero numerose torri, qualcuna ancora esistente. Accanto a quelle private, infatti, se ne contavano diverse “pubbliche”, avulse dalle dimore nobiliari, a distanza di circa 300 passi l’una dall’altra, commissionate dalla Repubblica di Genova con finalità difensive. Per l’avvistamento, invece, erano più consone le alture del colle di San Benigno, ai cui abitanti era stato affidato tale compito come attesterebbe un decreto “per la guardia della città” del 1128, in cui si ordina testualmente: “agli uomini di San Pier d’Arena che già prestano servizio di guardia devono continuare ad attendervi”.

Le torri pubbliche, anche se l’ipotesi non è confortata da documentazioni sicure, dovrebbero essere state edificate intorno al duecento ma già nel XV secolo, come si intuisce da un dipinto di Cristoforo De Grassi, avevano perso il loro compito precipuo, assegnato a strutture a monte di via Sampierdarena. Attraverso la tradizione orale ed alcune immagini che sono giunte fino a noi, se ne può ripercorrere la storia cercando, mimetizzate nel contesto urbano, le poche tracce residue.

Quella più a levante, come si evince solo da vecchie stampe (1490), svettava su Capo di Faro, nelle vicinanze della Chiesa della Cella, ed era caratterizzata dalla merlatura all’interno del profilo del muro per cui è possibile datarla anteriormente a quelle a cosiddetta “merlatura aggettante”, tipiche del tardo-medioevo; la radicale riorganizzazione dell’area ne ha cancellato ogni altro ricordo. Analoga sorte è toccata a quella a levante di villa Pallavicino-Gardini (stabile anch’esso perso) che era ubicata così prossima alla dimora nobiliare da mettere in dubbio la sua appartenenza alle torri pubbliche ed inducendo a pensare ad un manufatto coevo (XVI secolo) della stessa villa. L’architettura del tetto, a forma piramidale, che è possibile valutare in immagini ottocentesche, la ricollocherebbe, però, tra le “guardie” anti-barbaresche.
Poco distante, s’innalzava la Torre del Labirinto, curioso toponimo da imputare al “disordine urbanistico” degli edifici di questo rione che faceva parte del quartiere della Coscia. Un “acervo di strade” come lo definisce Giuseppe Revere nel 1858, “ove vanno a perdersi a volte certi marinai, i quali scampati alle burrasche del mare, per gli spalancati favori di certe femmine, lasciano qui sotto il timone, e malconce le altre parti della loro povera nave”. La torre, una delle poche ancora esistenti, è accessibile, da via Pietro Chiesa, superando un archivolto dotato di cancello e, seppur nascosta tra le case, è visibile da Piazza Barabino.

Tra l’antica Crosa Larga (via palazzo della Fortezza-via Prasio) e vico Raffetto, resiste allo scorrere del tempo la Torre dei Frati. Incastrata tra gli edifici, ed inglobata nel cortile del civico 17 di via Sampierdarena. In via Sampierdarena, dove è ubicato l’attuale Municipio, si ergeva un’altra costruzione: la Torre del Comune. Umida e poco confortevole, perché posta su un piccolo promontorio prospicente il mare, non era normalmente presidiata ma, comunque, dotata di cannoni. Trasformata nel ‘500 in una struttura più solida a pianta quadrata denominata “il Castello”, due secoli dopo era nuovamente fatiscente tanto che fu necessario dotarla di una casetta in mattoni sulla sommità, per ospitare le guardie della Sanità. Da ciò si deduce che la sua funzione difensiva sia stata, sempre, marginale e persa già da tempo quando, nel 1852 ne venne decretato l’abbattimento definitivo per la costruzione della sede comunale. Dell’antico edificio rimane la fronte bassa sul lato a mare, resa praticamente invisibile da una struttura sovrastante e solo, in pochi punti, si intravedono le antiche pietre che affiorano sotto l’intonaco scrostato [1].
Accanto agli attuali uffici dell’Arpal di via Bombrini, stretta tra due edifici, resiste, invece, la Torre del Canto, anche se poco rimane della struttura primigenia poiché, abbandonata ad una totale incuria, fu completamente svuotata per farvi passare il montacarichi di un vicino edificio. Si trovava originariamente nei pressi di villa Cattaneo (demolita) e portava il nome dell’omonimo quartiere.

LE TORRI PRIVATE DEI NOBILI

Non compresa nella poderosa cinta muraria della Superba, Sampierdarena e i suoi abitanti erano più esposti, come quelli dei paesi limitrofi, alle incursioni dei pirati per cui quando, dal XVI secolo, i ricchi patrizi pensarono di edificare qui le loro dimore, fu naturale corredarle di un baluardo difensivo dove rinchiudersi in caso di pericolo. E’ il caso della torre di villa Principe di Francavicini (Via Botteri) che si presenta come un massiccio baluardo cinquecentesco con basamento a scarpa e terrazza sommitale a sbalzo, priva di merlature. La mancanza della villa originale (distrutta nel 1911) non ha potuto chiarire i dubbi sulla sua reale appartenenza. Si è ipotizzato, infatti, che la Torre dell’Ospedale, come viene attualmente indicata, essendo, dal lato ponente, molto vicino al parco di Villa Imperiale Scassi, sia stata erroneamente attribuita a quest’ultima e che sia, in realtà, da ascrivere alla dimora nobiliare perduta.

Similmente è ancora possibile ammirare la grande torre (Via C. Rolando, 12) della “fu” Villa Domenico Spinola, abbattuta nel 1963: soffocata dai moderni edifici e conglobata negli stessi per fini abitativi, conserva poco dell’originario aspetto.
Da ricordare, anche, la curiosa Torre dei Balin (pallini), un alto pinnacolo ad uso industriale, oggi ridotto ad un mozzicone malfermo (è stata ridimensionata in altezza). La sua non è una storia di nobili lustrini, ma di duro lavoro; nell’Ottocento qui veniva lavorato il piombo. Resistono al tempo, invece, la bella torre ottagonale con archetti pensili di villa Negroni-Carpeneto-Moro o il maschio quadrato di villa Spinola di San Pietro ed ancora la torre di villa Serra-Doria- Monticelli (via Dante 34), quella a sei piani di Villa Doria (Via D’Aste, 9) o quella cinquecentesca di Villa Centurione-Tubino–Carpeneto (Piazza Montano, 4).

IL PROMONTORIO DI SAN BENIGNO

La collina di San Benigno era uno sperone roccioso che terminava a picco sul mare con un promontorio su cui si ergeva (e si erge tutto’oggi) la Lanterna (rimandiamo al testo sul sestiere di San Teodoro). Verso la fine del 1930, dopo l’annessione alla “Grande Genova” secondo il progetto mussoliniano, si diede avvio ad imponenti opere per la sua definitiva demolizione al fine di dare continuità alla città verso ponente.
Qui, dove macilenti muli percorrevano erte salite col loro carico di sale, dove viandanti e pellegrini consumavano il loro faticoso andare, dove la cinta daziaria segnava il confine con la città Superba, oggi si estende un’area moderna (antico quartiere della Coscia) racchiusa tra via de Marini, via di Francia, piazza N. Barabino, lungomare Canepa ivi compresa l’area portuale che ricorda solo nel nome, San Benigno, l’antico promontorio.
Tra uno svettare di torreggianti grattacieli e nuovi moderni edifici, di fronte alla scalinata di accesso alla Lanterna, ancor oggi, è possibile scorgere una scultura in marmo, che si dice, essere un cimelio dell’antica abbazia, unico ricordo sopravvissuto a memoria del remoto baluardo e della sua storia.

SAN BARTOLOMEO DEL FOSSATO

Qui dove s’innalza l’attuale chiesa che porta lo stesso nome, sorgeva già dal 1054, “extra muros Ianuae”, un’antica abbazia dal grande valore storico. In questa piccola valle impervia, il Fossato, compresa tra il colle di San Benigno e quello di Promontorio (Granarolo), attraversata dal torrente a cui deve il toponimo, giunsero da Firenze 5 monaci Vallombrosani mandati a Genova, pare, dallo stesso fondatore S. Giovanni Gualberto, per dare vita a questo complesso religioso che si scelse di costruire, solitario, sotto le falde del colle. Un impervio sentiero, reso carrozzabile solo nel 1870, si inerpicava fino ad una zona chiamata basali o basuli o basà dove sorgeva il convento che era stato voluto dai nobili del luogo per contrastare il dilagare della simonia.
Quando, nel 1632, i padri Vallombrosani abbandonano il convento e la struttura torna al clero secolare, di fatto inizia un lento decadimento che ha il suo culmine tra il 1847 e i primi del ‘900 quando l’edificio viene adibito a pastificio e il suo campanile a fienile.
Nel 1922 iniziarono i lavori di restauro e la chiesa fu riaperta al culto fino al 4 giugno 1944, giorno in cui fu praticamente rasa al suolo dai bombardamenti ed in seguito completamente demolita. Sulla stessa area è sorta una nuova chiesa (1960), su progetto dell’architetto Erio Panarari, che tuttora conserva l’antico titolo di abbazia, titolo che le fu riconosciuto dopo una famosa “causa” e relativa sentenza del 1 marzo 1900. Tra le poche testimonianze rimaste dell’antico monastero, oltre ad uno stemma cardinalizio e alle dieci colonnine che sostengono l’altare, è da ricordare il pregevole Polittico di San Bartolomeo, databile 1380, opera di Barnaba da Modena (l’originale è conservato nel museo Diocesano), eseguito su incarico dell’arcivescovo Lanfranco Sacco.

SAN BARTOLOMEO DI PROMONTORIO

Salendo lungo l’omonima via (via Promontorio), fino a dove terminano le propaggini dell’antica cinta muraria (Mura degli Angeli) si giunge ad una struttura religiosa collocabile nella seconda metà dell’XI secolo. Quando i monaci Vallombroniani si stabilirono in questa parte del territorio ligure, dopo circa un ventennio dalla costruzione del convento a valle, decisero di edificare un luogo di culto alla cima del colle. La struttura religiosa, come detto, si fa risalire alla seconda metà del 1000 ma il primo documento certo è del 1311, relativo ad una donazione testamentaria di 20 soldi ad un tal “Pasquale”, monaco del convento. Sorta in ambiente prettamente agricolo, suburbano rispetto all’abitato sottostante, si presume che, all’inizio, la chiesa non fosse più di una pieve campestre in pietra scura per l’uso di conci provenienti dalle cave locali.
Oggi l’edificio religioso ha un orientamento ovest-est, si apre su un sagrato in risseu (ciottoli) e mostra una facciata ottocentesca a capanna con la parte centrale lievemente aggettante.

IL BELVEDERE DI SAMPIERDARENA

Scendendo dal Promontorio, superato il Cimitero della Castagna e risalendo alla destra di Via Martinetti, si raggiunge una località che anticamente veniva chiamata lo “Belovidere” (Belvedere), una zona ridente di ville e giardini che accompagnava nobili e cittadini durante le loro amene passeggiate, poco lontano da Croxetta de Bervei (Crocetta di Belvedere) che, come dice il nome, era il punto di incontro tra la strada che si inerpicava da Sampierdarena per dirigersi verso la Val Polcevera e quella che da San Teodoro, attraversando il Campasso, si perdeva a Ponente. Ma non bisogna farsi ingannare: la pace di questo colle, che ospitava un crocevia così importante, fu spesso turbata da sanguinosi scontri a partire da quelli tra Guelfi e Ghibellini, o teatro di eroiche resistenze come quella di Leonardo Monteacuto contro i francesi o ancora si erse a baluardo difensivo con il suo forte ottocentesco (Forte Belvedere) di cui rimangono, oggi, pochi ruderi.
Qui, però, quando “Berta filava”, in un’atmosfera di bucolica serenità, sorgeva il piccolo monastero di Santa Maria di Belvedere. Le prime testimonianze che citano l’edificio religioso le troviamo in un atto del 1285 in cui si legge che una certa Marietta, figlia di Giovanni Ascherio, disponeva una donazione per “lo Monasterio Sancte Marie de Bervei De Janua”, una modestissima chiesa databile tra il 900 e la fine del 1200, con annesso un piccolo convento di suore agostiniane che annoveravano, tra loro, fanciulle appartenenti alle famiglie più aristocratiche della città [2].
Il piccolo eremo attirò presto uno stuolo sempre maggiore di fedeli a tal punto che, nel 1563, il Papa Pio V concesse, a chi visitasse il santuario l’8 di settembre (ricorrenza della Natività e del Nome di Maria), “dai primi Vespri fino al tramontar del sole”, una amplissima indulgenza perpetua[3].

Nel 1665, venne decisa la demolizione della vecchia chiesuola del 1300, ad esclusione del chiostro, e ne venne costruita una più grande, in un terreno attiguo. Nel 1819, con l’avvento del Regno Sabaudo, il monastero ormai vuoto dopo le ordinanze napoleoniche, rischiò un nuovo smantellamento, decisione che suscitò una veemente reazione popolare, tale che, nel 1821, fu riaperto al culto sotto la custodia di preti diocesani. Al rifacimento della chiesa è sopravvissuto l’antico chiostro conventuale del XIII secolo: un piccolo gioiello quadrato di gusto lombardo, con una fontanella centrale.

VILLA SCASSI

Tra i gioielli che hanno impreziosito Sampierdarena nei secoli non si può dimenticare il capolavoro della scuola alessiana (Galeazzo Alessi, 1512-1572): Villa Scassi. Nata come Villa Imperiale dal nome del principe Vincenzo Imperiale che, nel 1560, ne aveva disposto la costruzione affidando la direzione dei lavori ai fratelli Domenico e Giovanni Ponzello, era un edificio che si ergeva di fronte al mare, circondato da un immenso parco che, attraverso sentieri, viali e grotte, si spingeva su per il retrostante colle di Promontorio. Per l’imponenza, la ricercatezza delle forme, la ricchezza e lo splendore degli ambienti interni, era indicata come “La Bellezza” in contrapposizione a Villa Grimaldi, detta “La Fortezza” e Villa Sauli-Lercari, “La Semplicità”. La facciata, che si presenta tripartita e impreziosita da esedre corinzie, da timpani ricurvi sopra le finestre e da ricchi stucchi sui cornicioni, ricorda un’altra dimora patrizia, Villa Giustiniani Cambiaso ad Albaro, anch’essa dell’Alessi (1548), che divenne modello per molte altre case nobiliari genovesi. Mirabile era soprattutto l’enorme giardino all’italiana che circondava l’edificio, ritenuto uno dei più belli d’Italia, che, come si può evincere dalle planimetrie di M.P. Gauthier, era un susseguirsi di aiuole, prati erbosi, antri artificiali ed ampie terrazze a cui si accedeva per diversi sentieri, delineati da muri a secco o da ripide scalinate in mattoni rossi, il tutto impreziosito da fontanelle e da statue a soggetto mitologico per creare un’atmosfera di magico incanto. In alto, superato un ombroso boschetto, il parco terminava con un laghetto artificiale e una grande voliera. Con l’apertura di via Cantore (1936), la parte in prossimità dell’edificio è andata perduta e, attualmente, la sua sommità ospita l’Ospedale Scassi ma, ancor oggi, è possibile ammirare quella zona retrostante la villa che ospita un grande ninfeo a tre fornici, adorno di lesene e telamoni e che fa da cornice alla bella fontana di Nettuno. Da qui dipartono due grandi rampe simmetriche che portano ad un’ampia terrazza da cui si snoda un lungo viale, un tempo, fiancheggiato da numerose statue marmoree di cui rimangono pochi esemplari. In corrispondenza di Corso Onofrio Scassi è, poi, possibile ammirare un grande portale e la torre seicentesca, residuato dell’antica cinta muraria ormai scomparsa.
Residenza degli Imperiali fino al 1757, la villa fu adibita, per un breve periodo, a caserma e poi trasformata in ospedale finché, nei primi decenni dell’Ottocento, fu ceduta ad Onofrio Scassi che la riportò agli antichi splendori affidando i lavori di ristrutturazione al pittore Nicolò Barabino e agli architetti Michele Canzio e Gaetano Centenaro. Oggi è diventata proprietà del Comune.

VILLA GRIMALDI

In parte su Salita Belvedere e in parte sul versante retrostante di Corso Martinetti, si erge un severo e massiccio edificio che per questo suo habitus possente si meritò l’appellativo di “Fortezza”. Fu costruita sull’antica “creuza larga” (oggi via Palazzo della Fortezza), una strada particolarmente ampia per l’epoca che portava direttamente alla spiaggia, commissionata dal nobile Battista Grimaldi, mercante, banchiere, uno degli uomini più ricchi della città. Incerta è la data di realizzazione, da posizionare tra il 1551 e il 1565, così come l’anno di ultimazione dei lavori collocabile tra il 1565 e il 1580. Ha anch’essa un’impostazione architettonica alessiana su progetto dell’architetto Bernardo Spazio, stretto collaboratore del grande artista, che ne curò la “fabbrica” mentre le parti decorative sono da attribuirsi a Giovanni Battista Castello.
Dell’ampio giardino che si estendeva fino al mare nulla è rimasto se non il piazzale sopraelevato antistante l’ingresso. L’edificio, nel corso della sua vita, è andato incontro ad alterne vicende da quando nel 1607 si onorò di ospitare il Duca di Mantova, al cui seguito vi era anche Pietro Paolo Rubens, a quando, nel XIX secolo, fu acquistata da Agostino Scassi che la trasformo in una fabbrica di conserve. Oggi fa parte del patrimonio comunale.

VILLA SAULI LERCARI

La “Semplicità” o Villa Lercari, si meritò questo appellativo per la modestia delle sue forme e per i freschi e splendidi giardini che scivolavano verso il mare. Di dubbia paternità, per alcuni attribuita al volere di Giovanni Battista Lercari per altri a Franco Lercari, fu costruita per la nobile famiglia nel XVI secolo. L’ingresso è orientato a ponente e la villa risulta simmetrico ed opposto a quello di Villa Grimaldi in modo da formare, quando la mancanza di altri edifici non frapponeva ostacoli, la base di un’area triangolare che vedeva il suo vertice nell’adito di Villa Imperiale, una specie “isola” nel cuore stesso del borgo. La facciata principale, invece, sita a levante, si offre all’osservatore mostrando gli snelli colonnati che delineano l’originale loggiato pervio, (quello nella facciata opposta è andato perduto durante l’ultima guerra), un occhio aperto, oggi, sulla soffocante edificazione che è cresciuta tutt’intorno, privando questa antica dimora del suo bel giardino che, stretto e lungo, chiuso da un alto muro a secco, si snodava fino al mare.
Qui venne ospitata Margherita d’Austria che, quattordicenne, visitò Genova nel suo viaggio verso la Spagna (1599) e che, si dice, fu l’indiretta causa della prematura ”dipartita” del Doge Lazzaro Grimaldi. Si narra, infatti, che, in suo onore, fosse stato organizzato un sontuoso ricevimento presso la villa dei Doria, in Fassolo: qui, al momento del pranzo, si determinò un increscioso incidente “diplomatico”. L’etichetta, secondo l’uso, recitava che dovesse essere il Doge ad accompagnare al desco l’Imperatrice, madre della fanciulla, ma, nell’ “oneroso” compito, fu anticipato dal connestabile di Castiglia, governatore di Milano. Accusato di non aver reagito adeguatamente all’insulto e di non essere degno di reggere le sorti della Repubblica, il povero Grimaldi tanto se ne ebbe che, colto da un improvviso malore, pochi giorni dopo, morì.

L’INDUSTRIALIZZAZIONE

Come detto in apertura, già dalla seconda metà dell’Ottocento Sampierdarena si imponeva come uno dei maggiori centri industriali italiani, fino a meritarsi nel 1865 il grado di “Città del Regno d’Italia”. Nel 1832 venne fondata nella zona della Fiumara la Fonderia dei Fratelli Belleydier, successivamente Taylor&Prandi, per la realizzazione delle reti ferroviarie Torino – Genova (1853) e Genova – Voltri (1856). Fu proprio a cavallo di queste due opere pubbliche che l’azienda, mal gestita e in condizioni economiche precarie, venne rilevata da un brillante ingegnere genovese, Giovanni Ansaldo.

Grazie a preziose conoscenze nel mondo politico, anche a livello europeo, Ansaldo riuscì da subito ad ottenere importanti commesse all’interno della “neonata” industria metalmeccanica. Fu proprio negli stabilimenti della Fiumara che venne costruita la prima locomotiva italiana (collaudata in incognito dallo stesso Ansaldo) chiamata appunto “Sampierdarena”. Successivamente il neonato Regno affidò ad Ansaldo buona parte delle commesse per la rete ferroviaria italiana, per la costruzione di caldaie marine e, successivamente, materiale bellico e motori a scoppio, sino ad arrivare alla produzione navale a cavallo del ‘900, quando l’azienda poteva già contare su oltre 10000 dipendenti e ben sette stabilimenti.
Gli edifici del moderno centro multifunzionale “Fiumara”, sono stati progettati proprio con l’intento di ricalcare l’antica struttura dei capannoni dove venivano assemblate le locomotive.

Adriana Morando


[1] Tra i “fantasmi” di cui si presume l’esistenza, viene annoverata anche una torre, in mattoni, in corrispondenza del lato di ponente del piccolo sagrato della Chiesa di Santa Maria della Cella. L’ipotesi sarebbe suffragata dalla necessità di vigilare su un punto di approdo esistente presso la proprietà dei Doria, testimoniato, fino a poco tempo fa, dalla presenza, tra le vestigia di un’antica costruzione, di vetusti anelli per l’attracco delle imbarcazioni. Un’altra presunta consorella, si dice essere stata la torre della Crosa del Buoi (piazza Vittorio Veneto) che, in una miniatura del ‘500, svetta dietro i palazzi e di cui rimangono dubbiosi reperti venuti alla luce durante la ristrutturazione di un edificio, alle spalle di via Sampierdarena. E’ incerta, anche, l’origine del toponimo del luogo legato, forse, al passaggio frequente dei carri trainati da questi animali o alla presenza di una stalla o, ancora, alla ubicazione di un mattatoio.

[2] Le monache, però, furono costrette ad andarsene proprio per le continue lotte fratricide e il sito fu ceduto, nel 1351, al nobile Leonardo Cattaneo che lo abbellì con nuovi arredi sacri e lo diede in donazione, con atto del notaio Gilberto Carpena, ai frati dello stesso ordine con la clausola obbligatoria di celebrarvi una messa quotidiana e l’interdizione ad una eventuale cessione, pena il passaggio del complesso all’arcivescovado. Gli agostiniani vi rimasero, salvo un’interruzione dal 1409 al 1472, fino alla promulgazione delle leggi napoleoniche del 1800 che ne decretarono la soppressione.

[3] Nel 1814, il periodo per beneficiare di tale grazia venne prolungato, da Pio VII, fino alla domenica successiva e Pio IX, nel 1847, lo estese a tutta la settimana in cui cade la festività.
Tra le annotazioni curiose c’è da rimarcare che anche le autorità pubbliche si adeguarono ovvero si impegnarono ad accordare un regolare salvacondotto, per potere accedere al santuario, a quei rei che avessero voluto mettere a posto i conti, se non con la giustizia, almeno con la propria anima. Un editto del 1696 concesse, addirittura, un permesso quinquennale per espletare tale pratica della durata di “tre giorni inanti e tre dopo immediati”.

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