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Val Polcevera: la storia e le antiche vie di comunicazione

La storia della Val Polcevera, l'antica strada del sale e le vie di comunicazione. Coronata, San Nicolò e Certosa

Il torrente Polcevera nasce a Pontedecimo dalla confluenza tra il Verde che forma la valle di Campomorone ed il Riccò proveniente dall’impluvio dei Giovi attraverso la valle di Mignanego. In questi torrenti versano le loro acque numerosi ruscelli che formano altrettante valli minori aperte a ventaglio nell’ampia cerchia dei monti appenninici che chiudono a nord la Val Polcevera.

Pare che anche Goethe sia rimasto affascinato da quell’antica valle conosciuta come Porcobera, così chiamata in una tavola bronzea emessa dal Senato romano nel 117 a.C.  per definire le zone di influenza dei liguri Veturi e dei “Genoati”, la stessa conca  che lo storiografo Plinio chiama Porcifera nella sua “Naturalis historia”(77d.C), divenuta nel medioevo Pulcifera ed ancora Pozzevera oPolzevera e, finalmente, nel  XIX secolo, Polcevera.

Per il corso ortogonale alla costa e la possibilità di scavalcare agevolmente il crinale spartiacque attraverso numerose linee di valico,  per le caratteristiche di prolungamento naturale oltre l’Appennino nelle Valli Scrivia e Lemme, la Val Polcevera, fin dall’antichità, è considerata la più importante ed agile via di comunicazione tra Genova e la pianura padana, quindi l’Europa. Proprio per la privilegiata posizione geografica ed il carattere di naturale raccordo tra il porto antico di Genova ed il basso Piemonte, in Val Polcevera si sviluppò una fitta maglia di percorsi tra i quali la via Postumia (tracciata dal console Spurio Postumio Albino nel 148 a.c.).

Sede in epoca preistorica e poi romana di tribù liguri a lungo in discordia per il possesso dei pascoli, percorsa e saccheggiata da eserciti invasori, ha visto attestarsi sulle sue alture il più importante sistema di fortificazioni e torri di avvistamento della cintura cittadina, è stata scelta nei secoli passati dalla borghesia e dalla nobiltà genovese come luogo ideale di residenza e villeggiatura. In tempi recenti l’estendersi degli insediamenti industriali costipati entro l’abitato periferico cittadino assediato dal percorso dell’autostrada e dal degrado causato dagli impianti petroliferi ha trasformato la valle in un territorio di frontiera così descritto da Adriano Guerini “… squallida e cara/ bellezza collina scesa a morire/ tra le case le fabbriche i muri/ gli enormi tubi lungo il fiume/ gli autotreni, un orto sparuto”.

L’unica documentazione archeologica sulla preistoria dell’alta Val Polcevera proviene da alcune raccolte di superficie del secolo scorso ma i reperti andarono quasi del tutto dispersi. A Prato Leone, sopra Gallaneto, fu individuato un sito preistorico contenente manufatti litici e così nei pressi di Cascina Nespolo, sul versante meridionale di monte Tobbio. Punte di freccia in diaspro e selce del periodo eneolitico (terzo millennio a.C.) vennero trovate sulle pendici del monte Costalavezzara presso le capanne di Marcarolo.

Il Genovesato entrò nell’orbita della civiltà romana nel III secolo a.C., tuttavia in Val Polcevera le testimonianze del periodo romano non sono numerose. L’apertura nel 148 a.C. della via Postumia che collegava Genova con Libarna e Piacenza attraverso la Val Polcevera sembrò anticipare la vocazione della valle ad essere nodo stradale fino ai nostri giorni. Testimonianza famosa dei primi tempi della dominazione romana è la Tavola di Polcevera trovata da un contadino a Isosecco presso Pedemonte nel 1506. Si tratta di una sentenza del senato romano del 117 a.C. su una questione di confini sollecitata da due tribù liguri i cui territori confinavano nell’alta val Polcevera: i Viturii Langenses con centro a Langasco ed i Genoati. Il grande interesse del documento è costituito dai numerosi riferimenti toponomastici. La funzione della sentenza fu di delimitare i confini tra l’agro pubblico e quello privato del territorio oggetto di contestazione.

Nel VI secolo la Liguria entrò a far parte dei domini bizantini. Il continuo stato di guerra con i longobardi determinò la necessità di formare un limes di difesa il cui tracciato non è però ben definito.  Oscuri sono i periodi longobardo e franco: l’unico segno di vitalità ovviamente è dato da Genova. Per quanto riguarda il suo entroterra, tra il VI ed il X secolo, mancano quasi del tutto notizie e reperti archeologici.

LA STRADA DEL SALE E LE VIE DI COMUNICAZIONE

Nel XI secolo cominciò l’ascesa politica ed economica di Genova e nel XII secolo le notizie sul suo contado si fanno più numerose e precise. Con l’espansione genovese nell’oltregiogo (1121) la Val Polcevera divenne una zona di grande interesse economico e strategico e nel suo territorio prende forma la cossidetta “via del sale” con tutti i suoi tracciati.  Nel Medioevo due importanti itinerari stradali di collegamento tra Genova ed il Nord Italia attraversavano la Val Polcevera e salivano da Pontedecimo, uno in direzione delle Capanne di Marcarolo – da dove da tempi remoti si teneva ogni giorno mercato con i lombardi – l’altro di Langasco, Pietralavezzara, Cian delle Reste, Fraconalto, per proseguire in direzione di Voltaggio e Gavi. Il traffico riguardava merci di tutti i tipi ma principalmente sale, elemento così prezioso che il Senato Romano lo usava per pagare i legionari (da cui l’origine della parola “salario”), sale che i contrabbandieri  nascondevano sotto strati di acciughe (non acciughe sotto sale ma il sale sotto le acciughe), per donarne una manciata ai pellegrini, che lungo la via Francigena (Canterbury-Roma) andavano a Roma, in cambio di una preghiera da recitare in San Pietro.

Sul versante sinistro della Val Polcevera, la strada del sale saliva dal porto di Genova a Torrazza e raggiungeva la pianura padana attraverso la Valle Scrivia e la Val Borbera. Sia per il medioevo, sia per l’età moderna, venivano utilizzati anche altri itinerari e passi, come i valichi dei Giovi di Busalla, della Vittoria e della Crocetta di Orero, conosciuti anche come vie dei feudi imperiali.

Quasi tutte le aggressioni subite da Genova nel corso della sua lunga storia ebbero come teatro principale la Val Polcevera essendo essa allineata sugli itinerari di collegamento con la val padana. Piccole fortificazioni e torri di guardia sorgevano un po’ dappertutto: Langasco, Pietralvezzara, Pontedecimo, monte Figogna, Bolzaneto, Sant’Olcese, San Cipriano, Morego, Valleregia, Torrazza, Casanova e Geminiano.

Verso la fine del ‘500 con l’apertura della Bocchetta perse importanza la via delle Capanne di Marcarolo ma il flusso mercantile continuò, seppure in forma ridotta. La Bocchetta, nonostante fosse considerata la via di comunicazione più importante tra Genova ed il nord Italia, continuò ad esser usata come una mulattiera. Solo nella seconda metà del secolo XVIII la famiglia Cambiaso tentò di renderla carreggiabile con l’allargamento della sede e la costruzione di numerosi ponti. Anche nel fondovalle la viabilità antica lasciava a desiderare: tra Campomorone e Sampierdarena fino all’intervento del Doge Cambiaso nel ‘700, si viaggiava sul greto del Polcevera e quando la stagione non lo permetteva lungo itinerari di mezza costa.

Con l’inizio del XIX secolo ci fu la tendenza a sostituire il traffico someggiato col più economico uso dei carri. Né la strada della Bocchetta per la Val Polcevera, né la strada della Cannellona per il collegamento di Voltri con la Valle Stura erano però idonee, perché troppo ripide. Occorreva aprire nuove arterie. La strada dei Giovi fu progettata sotto l’impero napoleonico ma portata a termine dal governo sardo nel 1821. Il valico del Turchino, invece, nel 1872.

Nel 1854 Genova e Torino furono collegate con la ferrovia. Tra la Val Polcevera e la Valle Scrivia fu scavata la galleria dei Giovi lunga 3250 metri. Nella metà del secolo XIX lo sviluppo del porto impose la costruzione di nuovi collegamenti ferroviari come la Sampierdarena- Ovada–Acqui, attraverso la Valle Stura (1894) e la Succursale dei Giovi (1889).

Per la costruzione della ferrovia Genova – Torino fu impiantato a Sampierdarena lo stabilimento meccanico Taylor e Prandi (1846) divenuto l’Ansaldo nel 1863. Nel corso dell’Ottocento l’industrializzazione della bassa Val Polcevera fu tale che Sampierdarena fu soprannominata la Manchester d’Italia per l’alta concentrazione di industrie in rapporto al numero di abitanti.

Nel 1920 fu costruita la ferrovia a scartamento ridotto Genova-Casella che, dopo il tratto della Val Bisagno, da Torrazza a Crocetta d’Orero si affaccia sulla Val Polcevera. Nel 1935 il re Vittorio Emanuele III inaugura la “Camionabile” Sampierdarena-Serravalle.

A metà anni ‘60 la parte bassa della valle fu scavalcata dal viadotto dell’autostrada Genova – Savona e nel 1977 venne aperta l’autostrada Voltri–Alessandria, in previsione dell’entrata in attività del porto di Voltri.

LA RESISTENZA

In Val Polcevera, già dall’8 settembre 1943, ci furono i primi episodi di resistenza ai tedeschi da parte di militari italiani dell’89° fanteria nella caserma di Manesseno. Dopo gli scioperi del dicembre ’43, nell’agosto del ‘44 si formò a Bolzaneto la brigata Balilla impegnata in azioni di sabotaggio contro i tedeschi.

Particolarmente intensa fu l’attività partigiana nelle zone montuose. L’altopiano di Praglia – Capanne di Marcarolo divenne una base fondamentale, difficilmente controllabile dagli occupanti. Una grande concentrazione di uomini, per lo più renitenti alla leva, si formò alla Benedicta. Il 6 aprile 1944 i tedeschi decisero di intervenire: il rastrellamento partì da zone diverse. Furono catturati 96 uomini disarmati che vennero tutti trucidati a gruppi di cinque alla volta. L’edificio dell’antico monastero fu fatto saltare con la dinamite. Altri 16 uomini caddero in uno scontro a fuoco con i tedeschi a Mezzano, vicino ai laghi del Gorzente.

Nel marzo ’45, in seguito ad un’azione partigiana contro un gruppo di tedeschi, fu incendiato Cravasco e 18 prigionieri politici prelevati dalle carceri di Marassi furono giustiziati. Il 4 aprile 1945 per rappresaglia i partigiani fucilarono a Cravasco 39 prigionieri di guerra.

LA COLLINA DI CORONATA

La collina fu sede di coltivazioni viticole da cui si ricavava un vino famoso sin dall’antichità: la cosiddetta “bianchetta di coronata”, a cui fa cenno il Giustiniani nel 1532 mentre, nel 1602, il Paschetti ne esamina le caratteristiche organolettiche e le qualità dietetiche. Sui terreni retrostanti la collina di Coronata c’è ancora qualche vigneto dal quale si ricava il prestigioso vino.

Il santuario di Coronata ha origini incerte ma antichissime essendo citato, già nel 1157, il primitivo luogo di culto dedicato a San Michele. La trasformazione in santuario mariano avvenne nell’XI secolo quando una statua lignea della Madonna fu trovata sulla spiaggia di Sampierdarena e con ripetuti spostamenti indicò il colle di Coronata come luogo d’elezione per il nuovo culto. Fu allora costruita la prima chiesa accanto a quella preesistente di San Michele. Nel 1486 le due chiese furono assegnate ai Canonici Regolari di San Salvatore, ordine religioso che si ispira alla vita comune di Sant’Agostino che innalzarono il convento, l’attuale basilica e trasformarono in sacrestia la primitiva chiesetta di San Michele. Sorse così il santuario in stile romanico-gotico cistercense consacrato nel 1502 al quale, all’inizio del ‘500, fu affiancato l’oratorio. Si accede alla chiesa, sopravvissuta solo in parte alle distruzioni belliche e sempre ricostruita, dal piazzale porticato, frutto anch’esso di più recenti ricostruzioni.

L’attiguo oratorio è un bellissimo esempio di barocco genovese per la ricca decorazione a stucco ed i cicli pittorici di Giovanni Raffaele Badaracco (1648-1726) e di Giuseppe Palmieri (1674-1740).

SAN NICOLÒ DEL BOSCHETTO

All’inizio di Corso Perrone in direzione Cornigliano, sul fianco della collina sopra l’attuale sede della Fondazione Ansaldo, si trovano la monumentale abbazia e la chiesa di San Nicolò del Boschetto. Il complesso, oggi di proprietà della congregazione di Don Orione, nonostante l’abbandono della chiesa è tra i più insigni della Val Polcevera per i pregi architettonici ed il valore storico. Vi si accede dalla crosa sul lato seguendo le indicazioni e si arriva dinanzi ad un grandioso portale alessiano in pietra arenaria e marmo bianco che introduce nel piccolo cortile. Su una lapide del 1311 si legge la prima testimonianza dell’antico insediamento quando per volere di Magnano Grimaldi fu eretto il primo nucleo della chiesa. Anche il campanile in cotto con cuspide centrale prova l’origine trecentesca della chiesa affidata ai Benedettini nel 1410, epoca nella quale la prima cappella venne trasformata in chiesa e circondata dal complesso conventuale. Tra 1492 e 1519 fu eretto il chiostro principale e l’abbazia conobbe momenti di grande splendore, quando ebbe lasciti dai nobili Grimaldi, Lercari, Doria, Spinola e fu da essi scelta come luogo di sepoltura, fu visitata da personaggi illustri tra i quali nel 1507 Luigi XII di Francia. In età barocca chiesa e convento subirono numerose trasformazioni secondo il nuovo gusto e nel 1748 le truppe austriache che assediavano la Val Polcevera saccheggiarono il complesso monumentale. Dopo l’abbandono dei Benedettini, dai Brignole finì nelle mani dei Delle Piane che svendettero quanto era sopravvissuto dalle devastazioni precedenti: altari, arredi, oggetti ed opere d’arte furono dispersi. Del passato splendore restano oggi gli spazi: il chiostro grande dalle forme rinascimentali, il chiostro piccolo, antico ingresso del convento sul quale si affacciavano la foresteria e l’infermeria, la chiesa a tre navate che si presenta nell’aspetto derivato dalle trasformazioni operate tra i secoli XV e XVII.

CERTOSA

Certosa deve il suo nome all’antico complesso conventuale che qui sorse grazie ad una donazione dell’area da parte del nobile Bartolomeo Dinegro, come riporta l’atto di fondazione datato  9 luglio del 1297. A quei tempi il luogo ospitava solo poche sparute case di contadini, una chiesa del 1178 e in località Borghetto, l’ospedale di San Biagio, istituito nel 1178 dai Leccavela per il ricovero di ammalati e pellegrini. In queste terre, dunque, giunse un piccolo gruppo di monaci, bianco vestiti, provenienti dalla Certosa del Casotto, nei pressi di Cuneo,  che incominciò l’opera di edificazione. Fu innalzato , per primo, un chiostro in muratura ad arcate ogivali con intorno le celle dei monaci, l’oratorio di San Bartolomeo, cui seguì la costruzione del Cenobio e la risistemazione del terreno agricolo con impianti a grano e vigne.  Fino al 1943 ( poi distrutto da una bomba), vi era nel piano sottostante la chiesa un vecchio tinaio, all’ingresso del chiostro, così come, fino alla fine del XIX secolo esisteva ancora il mulino della Pietra  che prendeva l’acqua dal Polcevera in corrispondenza di piazza dei Camalli (ora Facchini). La Chiesa, a pianta quadrata, conserva poco del nucleo originale per i pesanti rimaneggiamenti a cui è andata incontro: si soprappongono al gotico originale, lo stile toscano e il barocco, un esempio del quale si trova nella cripta sotto l’altare maggiore che ospita i resti del Doge Ambrogio Dinegro .  Si sono perse,  inoltre, le quattrocentesche cappelle gentilizie  dei Doria e degli Spinola, demolite nel XIX secolo, mentre si è salvata, in parte, quella di san Bartolomeo. All’interno si trovano pregevoli affreschi di Giovanni Carlone (XVII secolo), le due acquasantiere di suo padre, Taddeo Carlone, la  bellissima lapide tombale  a fogliami di Bartolomeo Dinegro, ora  conservata nel corridoio della sacrestia. Mirabile la cupola a tiburio ottagonale (1562), che ricorda l’architettura del Bramante.

Adriana Morando e Matteo Quadrone

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