Genova e i Jeans: il tessuto del porto che conquista l’America

La leggenda dei Jeans nati a Genova
Illustrazione di Constanza Rojas

C’era una volta il “denim”, una solida tela in cotone, contrassegnata da robustezza ed adattabilità, grazie alla sua armatura a saia (disposizione diagonale dei fili), il cui nome sembra derivare da “Nimes”, città della Francia, in cui veniva intrecciato. Fin dal XV secolo, era usato in competizione col fustagno, prodotto nella città di Chieri (Torino) e che raggiungeva Genova per venire esportato o adoperato nella creazione di sacchi per vele o per teloni da copertura. Secondo alcuni, questo tipo di filato è stato impiegato, per primo, nella manifattura di pantaloni da lavoro, antesignani dei “Jeans”, primogenitura spesso assegnata al bordatto ligure o vergatino, un tessuto, quadrettato, in cotone.

Sta di fatto che, come narra  questa “favola”, un anonimo mercante genovese decide, alla fine dell’800, di inviare in America una partita di queste tele di colore blu (dalla tintura con indaco), e di sfruttarle per la confezione di tute e, soprattutto, di calzoni, caratterizzati da ampie e robuste tasche, molto richiesti dai cercatori d’oro.

L’accoglienza favorevole dimostrata verso tale abbigliamento, spinge due attenti tessitori, Levi Strauss e Jacob Davies, non solo a produrre la tela di “Genes” (da cui Jeans) ma anche a chiederne il brevetto, nel 1874.

Il cammino dei jeans verso la notorietà conosce, fino ai primi del ‘900, un periodo di “oscurantismo” che li confina tra la merce di “basso rango” ma con l’avvento, negli anni ’30, dei primi film sui cowboys, in cui i protagonisti li indossano insieme agli immancabili pistoloni, in atteggiamento da vero “macho” e quando James Dean, nel 1955, diviene un mito emblematico con la sua“Gioventù bruciata”, il loro uso si diffonde rapidamente tra i giovani americani, tanto da farne “l’uniforme” dei teenagers.

Con la guerra, arrivano in Europa portati dai Marines, ma si deve aspettare fino al 1953, nel periodo post-bellico, perchè , grazie al basso costo, vengano assunti come “divisa” da giovani ribelli inglesi, i Teddy Boys, che li sfoggiano, sotto blazer scuri, con  modelli a sigaretta, orli rivoltati e aspetto consunto  o, più avanti, dai capelloni che affollano le piazze, qui a Genova come quella di Tommaseo…

Contro questi simboli della contestazione giovanile, visti in molti casi come artefici di atti di delinquenza e di bravate censurabili, si scatena una vera battaglia denigratoria, a partire dal 1959, da cui non si salvano neppure i blue jeans che vengono proibiti perentoriamente dai presidi, i quali non esitavano a rispedire a casa coloro che osano presentarsi così abbigliati, e sono fortemente esecrati dai capo-uffici, pubblici e privati, che non tolleravano nessuna deroga, in nome del contegno e del decoro.

Ma come in ogni favola, arriva un principe salvatore, in questo caso un vero re dell’automobile, Gianni Agnelli, con impeccabili Jeans in perfetto stile “casual”, assicurando che possono essere indossati in molte occasioni, grazie ad un piacevole “senso di libertà”.

Come una principessa risvegliata da un bacio, la moda dilaga già dal giorno successivo, sotto gli sguardi impotenti dei tutori del look, sia tra uomini che donne, queste ultime finalmente liberate dal talebano dictat religioso “e la donna non si metterà un indumento da uomo, perché chiunque fa tali cose è in abomino del signore (deuteronomio capitolo XXII)”.

Merita citare, non proprio come esempio di morale conclusiva di una fiaba,  lo scalpore suscitato in quegli anni dall’immagine provocatoria di una nota pubblicità lanciata dal marchio “Jesus”, il quale campeggiava su un formoso lato B, accompagnato da un “caldo” invito: “chi mi ama, mi segua”.

Adriana Morando

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